Meglio comunità o affido?

Domanda

I genitori d’origine dei bambini non vogliono l’affidamento, preferiscono la comunità, hanno paura di perdere l’affetto dei loro figli. Quali risposte dare in questi casi?

Risposta

Questo è un timore comprensibile, anche se infondato. Non dimentichiamo che per anni il ricovero in comunità è stata l’unica soluzione proposta. Ma ricoverare un bambino in istituto significa soddisfare solo alcuni dei suoi bisogni: il nutrimento, l’istruzione, ecc. La permanenza in comunità non sostituisce la permanenza in famiglia, perché non può e non potrà mai offrire al bambino un rapporto affettivo personalizzato, che dia sicurezza.

L’istituto, anche se ben organizzato, non è in grado di rispondere alle esigenze affettive dei minori, indipendentemente dall’impegno e dalla professionalità del personale. Il ricovero, soprattutto se prolungato, pregiudica, a volte anche in modo grave, la strutturazione armonica della personalità dei minori.

Molti genitori lo considerano ancora una scelta valida anche perché non conoscono o sottovalutano le conseguenze negative. La “cultura” dell’istituto o del collegio è radicata nell’opinione pubblica. Non c’è da stupirsi se alcuni sono portati a riproporre questa soluzione per i propri figli. Da sottolineare, in più, che è ancora diffusa la convinzione che i figli siano “proprietà” dei genitori.

Anche sulla base di varie esperienze ci sentiamo di condividere quanto affermato dallo psicologo Guido Cattabeni: “Gli incalcolabili vantaggi che derivano al bambino in affido dalla collaborazione della sua famiglia di origine ci impongono di dedicare il massimo del tempo, delle energie e della competenza, al lavoro di preparazione della famiglia d’origine, partendo dall’idea che è legittimo che dei familiari e soprattutto le madri, che sono interessati ed affezionati ai propri figli (anche se spesso in modo poco “standardizzato”) soffrano all’idea che altri se ne occupino per un tempo più o meno lungo. L’obiettivo di questo lavoro di preparazione può essere anche soltanto quello di ridurre al minimo interventi di sabotaggio dell’affido, quando non fosse realistico pensare di ottenere una piena collaborazione”.

Si cercherà di decolpevolizzare la famiglia d’origine (non è perché tu sei un cattivo genitore che il bambino è affidato ad un’altra famiglia), di rassicurarla (gli affidatari integrano e non sostituiscono la famiglia d’origine), di evidenziare il vero interesse del bambino cui vogliono bene. È quindi necessario che gli operatori organizzino il loro lavoro in modo da avere il tempo di effettuare questi interventi preparatori senza illudersi comunque che tutto dipenda dalla loro abilità e competenza “verbale”: la loro preparazione della famiglia d’origine si concluderà positivamente solo quando le loro parole saranno confermate dai fatti, cioè da ciò che avverrà dal momento dell’incontro con gli affidatari in avanti. Né dovrà essere trascurata la preparazione del bambino all’affidamento. Nel caso della famiglia collaborante, la preparazione al passaggio sarà possibile proprio nel suo interno: si tratta di dare al bambino informazioni sufficienti e anticipate su ciò che avviene, sulle motivazioni e sugli sviluppi futuri”.

Se la famiglia d’origine non dà molto affidamento per quanto riguarda la capacità di preparare il bambino, deve essere aiutata nelle varie fasi dall’operatore sociale. Ovvio che il bambino possa e debba portare con sé le cose personali, che rappresentano la concretizzazione della possibilità di conservare i suoi legami affettivi con il passato: il segno della continuità. Preparare il bambino diventa assolutamente importante quando la famiglia è in difficoltà o per nulla capace a collaborare all’affido. L’operatore deve supplire, in questi casi, alla funzione rassicurante della famiglia. Ciò sarà possibile naturalmente se egli avrà potuto stabilire quel minimo di rapporto interpersonale con il bambino che consente di presentarsi come persona che lo “riconosce”. In casi di allontanamenti improvvisi ed urgenti, disposti dal Tribunale per i minorenni, non essendoci il tempo di conoscere a sufficienza i bisogni del bambino o stabilire con lui un minimo di rapporti di fiducia, non è tecnicamente ammissibile trapiantarlo da una famiglia all’altra, per quanto quest’ultima possa essere ottimale. Bisogna allora ricorrere ad un inserimento provvisorio in un contesto ambientale emotivamente meno pregnante, in una comunità cioè che consenta sia di svolgere un periodo di osservazione e di conoscenza sia di predisporre interventi che preparino ad un collocamento in famiglia”.